Chiunque abbia avuto uno spiacevole incontro ravvicinato con un’ape, o una vespa ad esempio, ha imparato sulla propria pelle che gli insetti sono in grado di lottare e di rispondere al nostro disturbo.
A volte il dolore causato da alcune punture rimane impresso nella memoria per lungo tempo. Eppure si tratta di insetti così piccoli… ma come è possibile?
In natura troviamo una grandissima varietà di insetti in grado di pungere.
GLI ACULEATI
Questi appartengono all’infraordine degli Aculeati, dal latino aculeus (pungiglione). Per maggiori informazioni, ti rimando al link dell’articolo sulla classificazione di apis mellifera.
Questo infraordine comprende vespe, formiche, api, ma non vespe parassitoidi.
Le vespe parassitoidi infatti utilizzano il pungiglione principalmente per deporre uova all’interno della preda, e secondariamente per iniettare del veleno paralizzante.
Tornando però ai nostri insetti dotati di pungiglione, la cosa che salta all’occhio quando li osserviamo sono senz’altro i loro colori. Questi colori fungono da veri e propri segnali d’avvertimento: “lasciatemi in pace, o ne pagherete le conseguenze!”.
Questo fenomeno ha il nome di aposematismo, un termine che deriva dal greco e che sta ad indicare letteralmente “dare un segno contrario”.
In parole spicciole, questi colori avvertono i possibili predatori che l’insetto in questione può essere nocivo, oppure avere un sapore molto sgradevole.
Gli antenati di questi insetti sono i Symphyta (uno dei sottordini degli Imenotteri) che sono degli insetti fitofagi. Si tratta di vespe primitive che utilizzano il pungiglione per deporre uova in posizioni protette, scavando attraverso i tessuti delle piante.
Questo “tubo” per la deposizione delle uova sembra essere la chiave evolutiva del pungiglione.
MA COS’E IL PUNGIGLIONE?
Il pungiglione è sostanzialmente un tubo cavo in grado di somministrare veleno anziché deporre uova. Detta così sembra semplice, ma in realtà modificazioni di questo tipo implicano tantissime variabili e passaggi evolutivi per nulla banali.
Un passo evolutivo intermedio fra l’ovodepositore ed il pungiglione è riscontrabile nelle vespe parassitoidi, che continuano ad utilizzare l’ovodepositore per le uova, ma aggiungono del veleno paralizzante in grado di preparare l’ospite ad essere mangiato “fresco” dalla larva di vespa che si schiuderà dall’uovo deposto.
Se veniamo punti da una vespa parassitoide, evento piuttosto inusuale ma possibile, noteremo che il livello di dolore sarà molto basso o quasi nullo.
Come mai?
La risposta sembra essere che le vespe parassitoidi a livello evolutivo non hanno avuto la necessità di sviluppare un ruolo prettamente difensivo.
DIFFERENTI PERCORSI EVOLUTIVI
Ricercando stadi successivi dello sviluppo del pungiglione, notiamo quindi la cessazione dell’utilizzo di questo tubo come ovodepositore, e l’aggiunta di un mix di sostanze tossiche anche piuttosto complesse, comunemente note con il nome di veleno.
Altre forme intermedie sono presenti in natura, ad esempio possiamo trovare mix di veleni e sostanze paralizzanti in alcune formiche primitive ed in alcune vespe solitarie, ma queste forme non sono presenti nelle api.
Le api rappresentano un gruppo di circa 20.000 specie che hanno abbandonato l’utilizzo di fonti di cibo animali, sostituendo la propria dieta con polline e nettare.
Negli insetti che sono in grado di pungere però, scopriamo che solo le femmine possono farlo.
I MASCHI NON POSSONO PUNGERE
Vi starete forse chiedendo perché… Beh perché i maschi il pungiglione non ce l’hanno!
Se ci pensiamo infatti, il pungiglione nasce come modificazione del “tubo” per la deposizione delle uova (ovodepositore), “tubo” del quale i maschi sono sprovvisti!
I maschi quindi sono sostanzialmente inermi e non aiutano le proprie sorelle in maniera attiva nella difesa della colonia.
Se proviamo ad infastidire con insistenza un maschio di ape o di vespa, questo cercherà di scappare o di nascondersi. Ma non fatelo, lasciateli in pace, poveretti!
Ciò non toglie che se prendiamo in mano un maschio intrappolandolo, questo si muoverà come se stesse cercando di pungerci, una sorta di pseudo-puntura.
Il risultato è che per riflesso si tende a lasciare l’insetto per evitare di essere punti, quindi a conti fatti a volte questo bluff funziona.
Diciamo che la loro tattica equivale un po’ al minacciare qualcuno con una pistola finta. Potrebbe funzionare, e in effetti a volte funziona!
E I PREDATORI?
Dal canto loro i predatori degli aculeati non sono rimasti con le mani in mano.
Sono dotati di sistemi che riescono a mitigare o a rendere a volte inefficaci gli attacchi tramite pungiglione. Fra questi sistemi possiamo individuare la folta peluria presente in alcuni mammiferi, il fitto piumaggio degli uccelli, le scaglie dure dei rettili oppure la pelle viscida e gommosa degli anfibi.
Non solo, mammiferi ed uccelli possono vantare tempi di reazione molto più veloci rispetto agli animali a sangue freddo. Grazie a questa caratteristica spesso riescono ad allontanare gli insetti pungenti prima ancora che una grande quantità di veleno sia stata somministrata.
E’ così che gli insetti in grado di pungere hanno sviluppato un trucco per ovviare a questo problema. Dovevano in qualche modo massimizzare l’effetto deterrente.
Attorno alle sacche contenenti il veleno hanno sviluppato muscoli piuttosto potenti per somministrare la massima quantità di veleno nel più breve tempo possibile.
La forza di questi muscoli è tale che in alcune vespe sociali il veleno viene spruzzato fino a 30 cm di distanza.
LOTTARE FINO ALLA MORTE
L’altro stratagemma adottato è l’autotomia del pungiglione. In alcune vespe sociali e formiche raccoglitrici, ma anche nelle stesse api mellifere, il pungiglione agisce come una sorta di unità autonoma esterna.
Questo si àncora alla pelle del malcapitato grazie a delle dentellature ricurve. Le dentellature fanno sì che la sacca del veleno si distacchi dal resto del corpo dell’insetto, e rimanga attaccata al malcapitato di turno.
La sacca a questo punto, grazie ai muscoli che la circondano, continua a pompare veleno dalle riserve.
Questo sistema risulta letale per l’ape che punge, ma assicura allo stesso modo una somministrazione più completa del veleno, massimizzando l’efficacia della puntura.
Massimizzare il dolore ed il danno inferto dal pungiglione, contribuisce maggiormente alla difesa della colonia.
Un punto cardine nell’evoluzione delle vespe, api, e formiche in grado di pungere è quindi la modificazione del tubo per l’ovodeposizione in vero e proprio pungiglione.
LA STORIA EVOLUTIVA
I primi imenotteri dotati di pungiglione erano solitari, uno stile di vita che molti aculeati tutt’ora mantengono.
Questi singoli individui hanno però un valore nutrizionale limitato per i predatori più grandi. Cacciare, cercare di catturare e lottare con un singolo individuo per una piccolissima manciata di sostanze nutritive non è un’occasione molto ghiotta.
Per questo motivo non esiste una forte pressione predatoria nei confronti, ad esempio, delle api solitarie. Queste non hanno avuto un eccessivo bisogno di sviluppare stratagemmi di difesa particolarmente potenti.
Infatti molti imenotteri solitari pungono molto raramente e, quando questo accade, è raro che la puntura provochi un dolore eccessivo.
Quando una popolazione si trova minacciata, il pungiglione in grado di causare più dolore si rivela più efficace rispetto ad uno che ne causa meno.
Queste modificazioni avvengono continuamente in natura, sia attraverso la ricombinazione genetica che attraverso mutazioni casuali.
Le aggregazioni di questi individui però spesso forniscono vantaggi che non sono disponibili agli individui solitari, ad esempio:
- una maggior condivisione di grandi fonti di cibo a vantaggio di tutti;
- una più facile individuazione dei membri dell’altro sesso nei periodi di accoppiamento.
Il rovescio della medaglia è che queste aggregazioni rappresentano un’occasione molto ghiotta per i predatori, che in questo caso trovano una nutrita schiera di prede tutte ammassate nello stesso punto. Una sorta di buffet gratuito… Se non fosse per il pungiglione!
In queste situazioni un pungiglione efficace può essere determinante per la sopravvivenza di una colonia.
VERSO LA SOCIALITA’
La forma più evoluta di aggregazione è la socialità, che possiede le seguenti caratteristiche:
- la presenza di molti individui che convivono all’interno di un nido protetto;
- la cura della covata;
- la presenza di nuove generazioni sovrapposta a quelle degli adulti;
- la specializzazione da parte dei vari individui per assolvere vari compiti (deposizione, bottinamento, difesa).
Uova, larve e pupe, estremamente ghiotte per i predatori, non sono in grado di difendersi o di scappare. Queste rappresentano un bel fardello per gli individui adulti, i quali hanno dovuto sviluppare diversi stratagemmi per la loro difesa.
La pressione selettiva da parte dei predatori sembra quindi sfavorire lo sviluppo di aggregazioni e socialità. Ci si aspetterebbe insomma che la socialità negli insetti sia un evento piuttosto raro.
Invece non è così, dato che gli insetti sociali comprendono un’enorme porzione della biomassa animale in molti ecosistemi. Come mai questo paradosso?
Grazie al pungiglione.
Il pungiglione si è evoluto di pari passo con la pressione selettiva sempre crescente da parte dei predatori.
E’ quindi una delle maggiori, se non la più importante, caratteristica che sembra aver reso possibile l’evoluzione delle forme più alte di socialità negli insetti.
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A presto!
Luca
Fonti:
- The sting of the wild – Justin O. Schmidt (2016)
- Evolutionary responses of solitary and social Hymenoptera to predation by primates and overwhelmingly powerful vertebrate predators – Justin O. Schmidt – Journal of Human Evolution (2014)
Immagini:
- Orso e miele: Di Wenceslaus Hollar – Artwork from University of Toronto Wenceslaus Hollar Digital CollectionScanned by University of TorontoHigh-resolution version extracted using custom tool by User:Dcoetzee, Pubblico dominio.
- Ape che punge: Di Waugsberg – Opera propria, CC BY-SA 3.0
- COPERTINA: Oh Honey Bear di Cindy Roberts, CC BY 2.0 riadattata dall’autore e distribuita con licenza CC BY 2.0 + “Velvet Ant, F, Stinger, Hot Springs Village, AR_2015-08-20-16.49.58 ZS PMax UDR” di USGS Bee Inventory and Monitoring Lab, CC0
Francesca
Salve, non è la prima volta che la leggo. Trovo i suoi articoli sempre molto interessanti. Grazie. Ora ho due domande un po’ sciocche forse (da ignorante in materia). Lei scrive che il maschio non è dotato di pungiglione. Lungi da me l idea di infastidire le povere api, ma da cosa si capisce che il soggetto in questione è un maschio? E ancora, perché la povera ape, al contrario della vespa, muore dopo aver punto la preda? Quale scopo ha la sua morte in natura? La ringrazio in anticipo se vorrà rispondere alle mie domande e Le auguro buon proseguimento con le preziosissime Api.
Luca
Grazie a te Francesca, non sono affatto domande sciocche.
Per quanto riguarda il riconoscimento dei maschi nelle api mellifere è piuttosto semplice; se cerchi su google “fuco operaia regina” trovi una serie di foto che mettono in evidenza le differenze fra maschio dell’ape (il fuco appunto), l’operaia e l’ape regina. Salta subito all’occhio che i fuchi hanno occhi più grandi e corpo più tozzo rispetto alle operaie, anche la stazza è un buon indicatore.
Sul perché le api muoiano dopo aver punto c’è in primo luogo una questione di praticità.
Un alveare in attività contiene nettare, polline e covata in gran quantità. Queste risorse sono molto ghiotte per predatori come, per fare un esempio, un orso affamato.
Per un orso attaccare un nido di vespe sarebbe come per noi arrampicarci in cima ad un albero alto 5 metri per mangiare una ciliegia, senza dubbio una rimessa dal punto di vista energetico, e anche un discreto rischio.
Se invece l’albero è carico di frutti la cosa inizia a farsi interessante.
Per via del forte interesse nutrizionale che riveste un alveare, le api si sono trovate a dover affrontare una forte pressione predatoria.
E’ per questo che rispetto alle vespe hanno bisogno di scatenare una risposta difensiva molto più potente.
Il distacco del pungiglione con annessa la sacca del veleno è l’unico modo che le api hanno per causare il maggior danno possibile a coloro che minacciano l’alveare. In questo modo anche se l’ape viene schiacciata o staccata il pungiglione rimane conficcato nella vittima e continua a pompare veleno in quantità superiore rispetto alle nostre vespe.
Queste almeno sono le ipotesi attuali, e a mio modesto parere hanno senso.
In altre aree del mondo ci sono eccezioni a questa regola, ma appunto si tratta di altre zone del mondo dove la popolazione di insetti e di predatori è differente rispetto alla nostra.
In secondo luogo, anche il sacrificio della singola ape operaia per il bene dell’alveare ha perfettamente senso.
Per parlare di questo però bisognerebbe affrontare tutto un discorso a parte sulla genetica delle api mellifere e su come sono imparentate fra loro le api operaie. Sarebbe difficile per me spiegarlo in questo commento, ma stiamo pensando di preparare un video proprio su questo argomento.
Insomma, spero di aver chiarito almeno in parte i tuoi dubbi a riguardo, se c’è dell’altro chiedi pure!